NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 13 agosto 2015

La Grande Guerra. Conferenza di Ugo D'Andrea. Seconda parte

Ugo D'Andrea, senatore del PLI
Nel 1914, in presenza della  prima guerra mondiale, prese corpo in Italia un nazionalismo che non obbediva, rispetto all’irredentismo, ai motivi di Matteo Renato Imbriani o di Cavallotti. Era un nuovo irredentismo assai più realistico e più aderente ai fatti.

Ho notato che non si cita mai, nel ricordo della prima guerra mondiale, il nome di Rugero Fauro, che nei suoi «Scritti politici», pubblicati sull'«Idea Nazionale», si richiamava sempre alla necessità di riconquistare le province Irredente, non solo perché esse ci venivano per diritto naturale, ma perché andavano strappate all'usurpatore con la prova armata contro una nazione straniera che ci opprimeva da secoli e teneva ancora alcune regioni della Penisola in suo dominio.

Il 1911 fu l'annuncio della nuova epopea. Videro la luce in quell'anno libri significativi come «L'ora di Tripoli» di Enrico Corradini, «Tunisí e Tripoli» di Piero Castellini, «La terra promessa» di Giuseppe Piazza, mentre Giuseppe Bevione sulla Stampa di Torino pubblicava alcune corrispondenze, in favore della conquista, per ragioni di equilibrio nel Mediterraneo e nell'Adriatico. Questo fu il carattere più proprio del Nazionalismo: l'ansia di assicurare all'Italia le terre di oltremare, sulla sponda adriatica e su quella d'Africa.

Nascevano in tutta la Penisola, tra il 1908 e il 1910, movimenti e giornali di tendenza nazionalista e irredentista: il «Tricolore» a Torino, ove si era costituito un gruppo di giovani attorno a Mario Viana, gruppo monarchico assai rigido nell'affermazione del Principato e non indulgente verso una Monarchia socialista e pacifista. Videro anche la luce «L'Italia all'estero» a Roma, «L'Italia nostra» a Torino, «La Rassegna contemporanea», la «Preparazione» del colonnello Barone (professore di economia politica); il «Carroccio» con più sensibile impronta nazionalista, sempre a Roma; «La grande Italia» a Milano; «La Nave » a Napoli, in concomitanza con il dramma del grande poeta pescarese e col motto «Arma la prora e salpa verso il mondo».
Si pubblicava a Genova «L'Italia viva»; a Venezia «Il mare nostro»; a Firenze « La prora ».
Contemporaneamente usciva «La lupa» di Paolo Orano, che voleva conciliare nazionalismo e sindacalismo, ed esplodeva il futurismo con la rivista «Poesia» di F. T. Marinetti e il suo storico manifesto. Nato come movimento italo-francese per il rinnovamento della poesia e dell'arte, il futurismo confluì nel nazionalismo e proclamò la guerra «sola igiene del mondo». Un poema del milanese Paolo Buzzi dal titolo «Aeroplani» era dedicato «a Trieste che riconquisteremo». Il passo dal futurismo verso il patriottismo e l'irredentismo era stato breve e assai rapido.

Tutti i movimenti che confluivano nel nuovo pensiero della Nazione, come protagonista della storia imminente, si riunirono a congresso nel dicembre 1910 a Firenze per tentate di definire una dottrina e costituire un movimento politico.

Vi erano uomini delle più diverse provenienze: venuti dal giornalismo, dalla letteratura, dall'insegnamento, dal sindacalismo: così Giovanni Bertacchi, Francesco Pastonchi e Arturo Colautti poeti; Giuseppe Piazza, Guelfo Civinini, Maurizio Maraviglia, Diego Angeli, Goffredo Bellonci, Ezio Maria Gray, Luigi Valli, Filippo Carli, Roberto Forges-Davanzati, Gualtiero Castellini, Paolo Arcari, Alessandro Dudan, Alberto Caroncini scrittori. Senza dire dell'adesione dei grandi come Pascoli, D'Annunzio, Alfredo Oriani, e dell'attiva partecipazione dei maggiori, come Corradini, Federzoni e tutta la pleiade degli scrittori dell'« Idea Nazionale » e, più tardi, di « Politica » diretta da Alfredo Rocco e Francesco Coppola, i quali furono tra gli uomini di maggiore ingegno e più compiuta disciplina ideale del tempo loro.

La guerra di Libia veniva decisa da Giolitti nella nuova temperie politica che i piccoli giornali, di cui abbiamo dato notizia e pullulanti in tutta la Penisola, documentavano. Tra essi non abbiamo ancora ricordato la «Terza Italia» di Roma, la «Giovane Italia» di Ancona, il «Cacciatore delle Alpi» di Varese. E ancora la «Ragione» e la «Fede nuova» che rispecchiavano gli ideali e i Principì della «Trento e Trieste » e invitavano i giovani ad andare, oltre, le coste dell'Adriatico, quelle dell'Albania e della Dalmazia.

Alcune centinaia di giovani obbedivano infine al richiamo di Garibaldi e si riunivano in camicia rossa a Grottammare: che doveva essere la nuova Quarto.

Uno di essi, Emilio Ricci di Torremaggiore, dedicava dei versi a Ricciotti Garibaldi:

« Sognammo, amici! In rigidi
volumi d'oblio sparsi,
di bellicose immagini
l'alma poté saziarsi,
innanzi ai nuovi palpiti
ogni altro amor languia! ».


Con questo animo il giovane Ricci si immolava nella grande prova della guerra mondiale, ormai prossima.

In data 28 luglio, Di San Giuliano, ministro assai stimato dal Re Vittorio Emanuele III, presentava un memoriale compilato nel riposo di Fiuggi, dove sosteneva la necessità di prepararsi all'azione bellica, sia che si volesse attuare la conquista, sia per convincere la Turchia a cedere.

Le difficoltà però venivano crescendo in campo internazionale. Si era raggiunto un accordo, dopo l'apparizione del cacciatorpediniere tedesco Panther ad Agadir, tra Francesi e Tedeschi per il Marocco. Con esso si diede soddisfazione alla Francia che, dal 1902 ci diceva che potevamo andare in Libia. Il governo di Parigi si aspettava da noi in cambio l'appoggio, che gli fu dato alla Conferenza di Algeciras, nella soluzione della questione del Marocco. Ma, una volta ottenuto il Marocco dalla Germania, la Francia non si attendeva più nulla da noi e cominciava a credere che anche la Libia potesse essere francese in presenza di un'Italia che non si decideva da due lustri a riempire quel vuoto. Il governo di Londra e quello di Pietroburgo si mostravano infedeli agli accordi con Roma.

Il 15 settembre 1911 Di San Giuliano, rivolgendosi ai suoi collaboratori della Consulta, disse: - «Notate il giorno e l'ora: in questo momento decidiamo, in seguito all'accordo fra Francesi e Tedeschi per il Marocco, la guerra di Libia! » - E, lo disse a dei collaboratori, a dei funzionari che si chiamavano Di Scalea, Della Torretta, Bordonaro e condividevano con entusiasmo le direttive politiche del Ministro.
Contemporaneamente il 20 settembre, a Roma, si svolgeva il Congresso della « Trento e Trieste », e si scioglieva, fra l'entusiasmo spontaneo dei convenuti, al grido di «A Tripoli, a Tripoli ».

Il 24 settembre 1911, il governo decideva la guerra, il 26 inviava l'ultimatum. Proprio quel giorno il maresciallo Conrad Capo di Stato Maggiore austriaco - consigliava al suo Governo, di opporsi all'azione italiana. E, se Vienna non poteva opporsi immediatamente, Conrad proponeva di fare i conti subito dopo, appena l'esercito italiano fosse impegnato in Africa.

Il 29 settembre l'Italia si trovava di fronte alla grande realtà della guerra: prima prova della nostra generazione, che doveva affrontarne ben altre.
Si viveva in tutta Italia nell'atmosfera gioiosa del cinquantenario dell'Unità. A Palermo, fin dal 1910, si era inaugurato monumento alla Libertà per ricordare l'unione della Sicilia all'Italia. Nel 1911 tre esposizioni si tennero in Italia: una a Torino delle industrie, una a Firenze per il ritratto, una a Roma per le Belle Arti; nel 1910, a Torino, si celebrarono i cento anni della nascita di Cavour. A Roma il 28 marzo si inaugurava, con l’esposizione, il monumento al Padre della Patria a Vittorio Emanuele II.

Fra parentesi: questo monumento pare oggi pesare sullo stomaco di molta gente. Si dice che è troppo bianco e che bisogna liberare l'Aracoeli, restituendo alla piazza le sue antiche dimensioni. A noi il monumento piace, e lo difenderemo come retaggio della generazione che ha conquistato Roma all'Italia.

Prevediamo che fra qualche anno si scopra (cosa possibile perché non si vede l'ombra di una manutenzione, né ordinaria né straordinaria del monumento) che esso «minaccia di crollare e costituisce un pericolo per la pubblica incolumità». Qualcuno potrebbe decidere allora di demolirlo per ricostruirlo altrove.

Penso che quando le generazioni dei combattenti del '15-'18 saranno prossime a spegnersi o spente addirittura (fisicamente, intendo, ma speriamo di sopravvivere nei giovani!)  penso che qualcosa di simile potrebbe avvenire in Roma ad opera di Governi cattolici memori del 1870 o di ministri socialisti che hanno sempre avversato la Monarchia. Ma questo appartiene all'avvenire. Per ora ricordiamo che il 28 marzo 1911 era presente a Piazza Venezia il Re. Egli disse, in quei giorni, ai sindaci di tutta Italia: «In questo Convegno nazionale, irresistibile e fervido esce dai nostri petti il giuramento di render l'Italia più libera, più felice, più rispettata nel mondo ».

Era un accenno molto esplicito agli avvenimenti che si sarebbero verificati. Intanto D'Annunziò, il grande cantore delle Laudi, abbandonava le antiche ispirazioni sensuali e visive (che avevano arricchito la letteratura italiana del Canto novo, del Piacere, della Nave e di innumeri altre opere): il poeta che avrebbe voluto sostituire le Canzoni d'Oltremare con dieci navi forgiate in acciaio, brandiva con le sue mani la fiaccola della poesia civile commessagli dal Carducci. Le Canzoni furono pubblicate sul « Corriere della Sera » dall'8 ottobre al 7 dicembre 1911.

Di San Giuliano temendo che la guerra alla Turchia avesse gravi conseguenze nei Balcani e portasse alla rottura di tutto l'equilibrio europeo, scriveva allora: - «Vivo l'incubo di una conflagrazione europea come la Terra non ne ha mai vedute di uguali ».

Quindi la guerra già si avvertiva alla guisa dei movimenti tellurici, dei cicloni, dei grandi cataclismi terrestri. Soltanto uomini eccelsi hanno il potere presagire il futuro. L'Italia, con le sue forze più giovani, si lanciava incontro all'avvenire per rivivere una età di grandezza quali aveva avute solo in tempi assai lontani.

Nel I volume dell'opera di Churchill, dedicata alla «Crisi mondiale» (opera che ha maggior valore dell'altra, più vasta sulla seconda guerra) ho letto che il 24 luglio 1914 il Gabinetto inglese era riunito a discutere l'eterno problema irlandese, il quale si trascinava da oltre un secolo.
Si discuteva ormai soltanto della estensione di due Parrocchie, la parrocchia di Felmenet e quella di Tyrou: dal loro tracciato sembrava ormai dipendere la pace fra Inglesi e Irlandesi, e quindi la responsabilità di una ripresa della guerra civile. La riunione stava per essere chiusa, in quel tardo pomeriggio, per la stanchezza di tutti i convenuti, quando arrivò un dispaccio che fu consegnato a Sir Edward Grev, Ministro degli Esteri. Questi, con flemma britannica, ma con voce grave, lo lesse al Consiglio dei Ministri. Era il documento dell’ultimatum dell'Austria alla Serbia: era l'annuncio della guerra mondiale.

In Italia il Governo di Antonio Salandra succeduto il 28 marzo del '14 al Governo Giolitti era cominciato male, con un episodio di guerra civile, spettacolo spesso ricorrente in Italia: la settimana rossa, capeggiata da uomini che poi si schierarono per l'intervento italiano a fianco della democrazia. Si erano costituite delle repubblichette comunali, si erano piantati con secoli di ritardo, gli alberi della libertà…
Sento dire spesso da molti amici: « In Italia non ci sono pericoli, non succede mai niente». E’ sono  in grave errore. L’Italia è il paese europeo più dedito alla guerra civile come è il più restio ad accettare i grandi conflitti esterni per le fortune ed il prestigio della Nazione. Queste sono verità e non mi accusate di abbandonarmi al pessimismo. Nella storia delle “Rivoluzioni d’Italia” di Giuseppe Ferrari ( che fu recensita più di un secolo fa da Ernesto Renan troviamo una dolorosa statistica: In circa un millennio ci son state nella nostra penisola 7200 rivoluzioni con settecento massacri per effetto della guerra civile”.
E’ questo forse il motivo per cui noi sentiamo più le contese intestine che i conflitti fra Potenze. Il 1Maggio del 1914 vi furono gravi lotte tra Italiani e Sloveni a Trieste e  apparve chiaro che la  polizia austriaca difendeva gli Sloveni contro gli Italiani in quella città interamente italiana.

La nostra situazione era paradossale.   Avevamo due alleati, Austria e Germania ma un unico nemico contro il quale eravamo destinati a combattere: l’alleato Austriaco.
Giuseppe Garibaldi scrisse fin dal 1877 a un suo fedele:  «Prepariamo l'Italia,   alla guerra inevitabile che essa dovrà sostenere contro l'Austria, nella quale si tratterà di essere o non essere per molti secoli». Questo era il pensiero di Garibaldi; con tutto ciò la Triplice ha potuto durare dal 1882 al 1914 come un sistema di difesa dalla grossa pressione dei Francesi e Inglesi nel Mediterraneo.

L'alleanza di Roma con gli Imperi Centrali non era che una controassicurazione.

Ma nello stesso tempo l'Italia sempre fertile di espedienti diplomatici, nel 1887 fece un patto con Francesi, Inglesi e Spagnoli per la sicurezza nel Mediterraneo, così come nel 1909 il Re Vittorio Emanuele III firmò una convenzione, in cinque punti, con lo zar Nicola II. La famosa Triplice restò per noi soltanto uno schermo difensivo, mentre pensavamo a garantirci contro le aspirazioni delle potenze marittime scese in Tunisia e in Egitto. La costante marittima è fondamentale per noi. L'Italia ha una sola possibilità di alleanza: quella con le potenze marittime, perché abbiamo 8.000 km. di coste da difendere.

Noi nel 1855 vincemmo, insieme con i Francesi e gli Inglesi, la guerra di Crimea perché eravamo alleati con le potenze marittime; nel 1915-18 abbiamo vinto, modificando il sistema delle alleanze, perché ci schierammo con le potenze marittime. Abbiamo perduto la guerra 1940-45 perché abbiamo creduto di poter rovesciare con un colpo di forza il predominio delle potenze marittime.
Il 24 luglio del 1914 si trovavano a Fiuggi, nel salotto del marchese Di San Giuliano, Salandra e l'Ambasciatore tedesco Von Flotow. Dalla Consulta un funzionario avvertì che era arrivato il testo dell'ultimatum di Vienna alla Serbia. Quel funzionario dettava l'ultimatum al telefono; mentre un Segretario, nel salotto di Di San Giuliano trascriveva e rileggeva, frase per frase, ai presenti. Tale lettura - scrive Salandra nel suo libro sulla «Neutralità» - scolorocci in viso. L'Ambasciatore tedesco esclamò: «Vraíment c'est un peu fort!».

La guerra apparve a tutti inevitabile.

Salandra ha lasciato due volumi (purtroppo non ha fatto altrettanto Sonnino) sulla neutralità e sull'intervento. Egli descrive con molta esattezza gli obblighi che noi avevamo e quelli che non avevano soprattutto in base all'articolo 7 del Trattato della Triplice.
Ma immediatamente, già nel momento in cui si prospettava il conflitto, la sua opinione era ferma su quello che si sarebbe potuto e dovuto fare.
Egli enuncia le molteplici ragioni della neutralità e poi dell'intervento a fianco dell'Intesa.

Il sentimento pubblico italiano sarebbe stato, in ogni caso, più che mai avverso ad una solidarietà con l'Austria che ci spingesse a partecipare con il sangue dei nostri soldati ad una guerra indetta da Vienna nel proprio esclusivo interesse, come stava avvenendo. Salandra ricorda i motivi che imponevano all'Italia di seguire una certa via: e non erano soltanto motivi sentimentali o storici quali l'irredentismo e la tradizione del Risorgimento.

Il sentimento pubblico tendeva ad una calma valutazione dei nostri vitali interessi. La sopraffazione della Serbia, con o senza diminuzione territoriale, il ridurla - come si voleva al vassallaggio. significava la definitiva egemonia dell'Austria e per essa la trionfale invasione del germanesimo nella penisola balcanica. Perduta per noi ogni possibilità di espansione, perduto commercialmente e militarmente l'Adriatico. In Germania, è vero, prevaleva nelle alte sfere della politica e della cultura il presentimento del tramonto e dell'inevitablie sfacelo della duplice Monarchia, condannata ormai come un organismo statale ibrido e decadente; ma i Tedeschi intendevano assicurarsene direttamente o indirettamente il retaggio, attraverso costellazioni di minori Stati asserviti all'Impero dominante e zone territoriali destinate alla più o meno totale assimilazione da parte della razza superiore.

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